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Milano, lo scontro tra borghesia e politica: se l’integrazione della città passa dalla responsabilità collettiva (e dal benessere economico dei cittadini)

di
Martino Liva

Milano non è egoista o depressa. Resta la capitale del volontariato, sede di virtuosi enti del terzo settore. Sa incubare innovazione, proporre cultura, festival, attirare talenti internazionali. Ma difetta di coesione

È vero che la borghesia milanese manca di visione d’insieme, tutta focalizzata sulle proprie reti funzionali e gruppi d’interesse, come scriveva Aleotti su queste pagine?
Si potrebbe sostenere al contrario che tale borghesia siede a Palazzo Marino da trent’anni. Albertini, Moratti, Pisapia, Sala: tutti diversi per colore politico e storia personale ma tutti espressione di “mondi civici” (imprenditori, professionisti, manager) e borghesi, in quanto istruiti e benestanti. 

Eppure, è innegabile la difficoltà di dialogo tra borghesia e politica. L’approccio, spesso, si consuma sul terreno scivoloso del lobbismo per la propria categoria. Lecito, ma indice di una classe dirigente poco appassionata per la città intesa come comunità fondata sulla convivenza solidale e partecipata. Proprio oggi, quando servirebbe uno scatto d’orgoglio davanti alle diverse povertà sovrapposte — economica, sanitaria, abitativa — che ci attanagliano, di cui racconta il denso ultimo reportage di Alice Facchini (Poveri noi. La classe media in bilico, Il Margine).

Non significa che Milano sia egoista o depressa. Resta la capitale del volontariato, sede di virtuosi enti del terzo settore. Sa incubare innovazione, proporre cultura, festival, attirare talenti internazionali. Ma difetta di coesione, anche perché la classe dirigente, divisa in diverse constituency, cerca di attrarre flussi (di capitali, cervelli) solo per la propria fazione, secondo una logica verticale.

Invece è la logica orizzontale – organizzazioni civiche trasversali che fanno da collante nel sistema città – il fermento su cui si fonda la buona governance pubblica. Lo dimostra uno studio dei primi anni 90 del politologo americano Robert Putnam (Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy). Per Putnam, che analizzò il primo sviluppo del regionalismo italiano negli anni ’70, il segreto dell’efficienza istituzionale è la presenza di un vigoroso network sociale di associazioni, comitati, gruppi di interesse, professioni, che si organizzano in strutture democratiche e orizzontali. Si tratta del “civic involvement”. 

Per Putnam impatta di più e meglio rispetto allo sviluppo economico sull’efficacia dell’amministrazione pubblica e sulla creazione di una società solidale. Non è, insomma, il benessere economico che crea la società attiva, da cui dipende l’amministrazione pubblica efficace. Viceversa, sono il civismo e l’intraprendenza sociale a innescare lo sviluppo economico e, quindi, una città meglio amministrata e più coesa. Se dovessimo cercare uno slogan tra le dense pagine di Putnam sarebbe: «Happiness is living in a civic community». Ne scriveva Alberto Falck, vero milanese illuminato, nel suo «Il punto è la responsabilità personale» (edita da Fondazione Ambrosianeum). Teorizzava i vantaggi reciproci, l’importanza di creare circuiti virtuosi derivanti da comportamenti solidali. Non c’è conflitto tra il profitto industriale e il welfare diffuso di chi lavora. Non c’è sicurezza urbana se grossa parte della cittadinanza è finanziariamente debole. Non c’è integrazione se non è percepita come responsabilità collettiva e non solo delegata al privato sociale e al mondo no-profit.

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16 novembre 2025