Spuntano ombre straniere nel complotto contro l’Eni

«Alcune informazioni contenute nel telefono, non inerenti al procedimento in corso, qualora divulgate a terzi potrebbero essere fonte di gravi danni alla mia professione e all’azienda per cui lavoro che in molti paesi è concorrente dell’Eni»: firmato Vincenzo Armanna. Sono le 10,41 del 29 settembre scorso quando al giudice milanese Anna Magelli arriva la lunga mail dell’avvocato siciliano divenuto, insieme al collega Piero Amara, uno dei principali testimoni d’accusa del processo Eni-Nigeria: un testimone, si è scoperto nel frattempo, specializzato in falsi e calunnie, definito dalla Procura generale un «avvelenatore di pozzi».

Il telefono di Armanna, sequestratogli dal pm Paolo Storari, è stato finalmente aperto dalla Guardia di finanza. Dentro c’era la falsa chat con l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, costruita da Armanna per cercare di incastrare i vertici dell’azienda di Stato. Ma c’era anche molto altro, anni di affari pubblici e privati dell’avvocato-faccendiere. Con la sua mail al giudice Magelli, Armanna il 29 settembre cerca di scongiurare il pericolo che l’intero contenuto del suo telefono venga consegnato in copia ai legali di Eni, che ne hanno fatto richiesta formale. Armanna spiega al giudice che dentro ci sono le sue vicende private, «chat e mail relative a tensioni squisitamente personali della mia famiglia», «analisi mediche», «informazioni sulle mie abitudini». E all’ultimo punto aggiunge il dettaglio cruciale, la necessità di tutelare la sua attività professionale per una azienda «che in molti paesi è concorrente di Eni».

È questo il passaggio che ha fatto suonare un campanello d’allarme negli uffici legali del cane a sei zampe. Perché, senza entrare nei dettagli, Armanna rivela di lavorare per un concorrente del gruppo. Un’azienda straniera, visto che in Italia il colosso pubblico non ha sostanzialmente rivali. Scoprire che uno dei principali accusatori dei suoi vertici lavora per la concorrenza ha rinfocolato i dubbi di Eni intorno a una domanda per ora senza risposta: chi ha ispirato il falso «pentimento» di Armanna e Amara, due professionisti legati per anni al gruppo e divenuti improvvisamente i testimoni chiave della Procura della Repubblica?

Ora che anche i pm milanesi paiono avere preso le distanze dai due, tanto da avere chiesto nei giorni scorsi il loro rinvio a giudizio per calunnia, gli interrogativi sui mandanti dell’operazione diventano cruciali. Anche perché Armanna non è l’unico tra gli ex di Eni a essere passato alla concorrenza: c’è anche Antonio Vella, ex numero due di Eni, uscito malvolentieri dal gruppo alla fine del 2019, processato e poi assolto per le presunte tangenti in Algeria. Nel suo interrogatorio del mese scorso davanti al Procuratore di Milano, Amara indica in Vella uno dei suoi interlocutori privilegiati dentro Eni. E dov’è oggi Vella? Guida i servizi logistici di Lukoil, il colosso energetico russo.

Ce n’è abbastanza, come si vede, per ipotizzare che «manine» straniere abbiano ispirato o almeno usato ai propri fini le accuse e i processi contro Eni. Sarebbe interessante capire se nel telefono di Armanna ci siano risposte a questi interrogativi. Ma il giudice Magelli, dopo avere ricevuto la mail di Armanna e il parere negativo anche della Procura della Repubblica, ha rifiutato di consegnare a Eni il contenuto integrale dell’apparecchio. E ci sono altri telefoni di cui non si conosce il contenuto: i quattro apparecchi sequestrati al poliziotto nigeriano chiamato «Victor» dopo il suo interrogatorio nell’aula del processo: e di cui non si sa che fine abbiano fatto.